lunedì 16 aprile 2018

Il copertone


La prima maratona, preparata con molta approssimazione, la corsi l’11 ottobre del 1992. In quegli anni, ci si poteva iscrivere senza appartenere ad alcuna società. Bastava essere in regola con il certificato medico agonistico.
Ottenere il certificato di idoneità agonistica non era per me un passatempo, non perché fossi afflitto da qualche tipo di patologia, ma soprattutto perché ero letteralmente terrorizzato dalla paura che mi fosse diagnosticato un qualche tipo di patologia cardiaca. Probabilmente già a quei tempi avevo delle premonizioni.
Quella maratona si svolse per i primi venti chilometri sotto una pioggia battente. Cercai di non strafare, impostai una andatura che avrebbe dovuto portarmi al traguardo intorno alle 3 ore e 10 minuti.
In effetti terminai in 3 ore e 17 minuti, a causa di un piccolo cedimento nei chilometri finali. Per uno alla prima esperienza era un buonissimo risultato.
Finita la prima maratona, cominciai a pensare immediatamente alla successiva, proponendomi di abbassare il tempo, ma soprattutto puntando ad attaccare il muro delle 3 ore. Le tre ore per molti maratoneti amatoriali è letteralmente un muro. Separa l'eccellenza dalla massa, quelli che corrono da quelli che si trascinano.  
L’impresa non poteva però essere improvvisata. Ci voleva una preparazione programmata e, nonostante inframmezzassi la corsa con letture specifiche sulle metodologie di allenamento, decisi di affidarmi a un allenatore.
Mi affidai a un mio conoscente, da sempre nel mondo dell’atletica e allenatore di una società del mio paese che faceva base nel campo di atletica vicino a casa.. La società non prevedeva le categorie amatoriale e fu così che fui tesserato come “seniores”. A quei tempi ci scherzavo con colleghi e amici dicendo che avrei potuto partecipare alle olimpiadi.
Ma un seniores che si rispetti doveva seguire un allenamento rigoroso e così una sera, terminato il periodo di riposo dopo la prima maratona, passando per la pista di atletica, l’allenatore mi fornì le tanto desiderate tabelle.
Il programma prevedeva un misto di allenamenti qualificabili come “fondo lento”, per curare la resistenza, accompagnati da quelli che erano definiti “fondo medio”, che puntavano a migliorare la velocità di base, che consistevano nel percorrere un diecimila a un ritmo più veloce del ritmo gara. Il piatto forte erano però le ripetute, corse da un chilometro da percorrere a velocità sostenuta, da ripetere dopo un recupero di circa 4 minuti. Il carico di lavoro era crescente: si cominciava con cinque ripetute per arrivare a quindici dopo dieci settimane, aggiungendone una alla settimana. Questo allenamento, una vera e propria tortura sia fisica che psicologica, lo effettuavo il sabato mattina in un circuito misurato.  Unico sollievo… finirle.
Le tabelle prevedevano tre settimane di “carico”, in cui gli allenamenti andavano effettuati completamente, seguite da una settimana di “scarico” in cui tutto andava svolto al cinquanta percento. Al termine del periodo di scarico si poteva programmare una gara per verificare i progressi ottenuti.
L'obiettivo era una maratona in primavera, quella di Torino, il 25 Aprile 1993, era la più probabile.
Nel programma erano previsti, inoltre, tutta una serie di esercizi che avevano il compito di potenziare i muscoli. Si andava da esercizi a terra che eseguivo in sala da pranzo la sera, fino ad arrivare a una serie di salti e balzi che effettuavo lungo il circuito delle ripetute.
Tra gli esercizi di potenziamento c’era anche il “traino del pneumatico”.
In pratica mi procurai un pneumatico di automobile dismesso e 20 metri di corda. Legato saldamente il pneumatico a un capo della corda, mi legavo all'altezza della vita l'altra estremità. La cosa era molto grezza e artigianale ma svolgeva efficacemente il compito di offrire resistenza alla corsa. Partivo più o meno all'altezza del cancello di casa e correvo come fossi alla finale dei cento metri fino all'inizio della vigna che stava circa 100 metri più in là. Le prime ripetute erano accompagnate da un senso di euforia e da una sensazione di potenza, ma dopo le prime cinque o sei arrivavo alla vigna con il cuore in gola, come si suol dire “impiccato”. La stradina era poco frequentata , ma quelle poche volte in cui passava un'auto cercavo di occultare tra l'erba il pneumatico anche se non mi slegavo. Insomma mi nascondevo ma non troppo.
In genere ripetevo l'esercizio una decina di volte, poi slegatomi, dopo aver recuperato, mi facevo un giro degli impianti sportivi ad andatura lenta.
Ma la cosa non passò inosservata  e un paio di anni fa, passati quindici anni, rincontrando alcuni amici a  una corsa ciclistica in paese, uno di questi, ricordando i tempi passati, mi disse:
“Ti ricordi quando ti allenavi con il copertone lungo la strada sterrata di casa tua ?, Ne parlavo qualche giorno fa con mia moglie, eri un grande!”.
Io lo guardai in parte stupito, perché erano anni che non ripensavo a quella corda e a quel pneumatico che probabilmente è ancora in qualche angolo nella casa in cui abitavo.

giovedì 12 aprile 2018

La rete della memoria


Mia nonna Ginevra (la Noemi), era del 1906. Mia nonna Rosa (la Rosina), era del 1890. La Noemi, dalla parte di mia madre, ebbe quattro figli. La Rosina, mia nonna paterna, partorì 12 figli. Di entrambe ricordo l'anno di nascita e so che una delle due era nata il 12 Aprile.
Oggi cercavo di ricordare quale delle due fosse. Pur intrecciando vari ricordi della mia vita, non sono riuscito a determinare di chi fosse oggi il compleanno.
Ricordo di aver festeggiato una sola volta il compleanno di una delle due, ma senza rammentare il giorno.
Poi, per un attimo, assorto in questi pensieri, di fronte al computer, sono stato colto dall'istinto di aprire la pagina di Google per porre la domanda, come ormai faccio ormai istintivamente quando cerco o non ricordo qualcosa.
“Ma cosa sto facendo e pensando?“, dissi tra me e me, allontanando le mani dalla tastiera e dal mouse, allibito da quanto quel comportamento fosse diventato automatico.
Non tutto e non tutti stanno nella rete, realizzai con un senso di sollievo e l'essere dimenticati è un nostro diritto.